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Dentro la Cabina di Linea
Dalla porta chiusa al “benvenuti a destinazione”, in cabina di pilotaggio si svolge un lavoro metodico e coreografato al secondo. Prima ancora di spingere indietro dall’area gate, i piloti completano in silenzio briefing e checklist, ripassano le minime operative, valutano meteo e NOTAM, calcolano le prestazioni di decollo e definiscono ruoli e call‑out. Quasi tutto avviene su EFB (Electronic Flight Bag), che ha reso la cabina sempre più digitale: piani di volo aggiornati, mappe aeroportuali interattive, performance tool e un canale diretto con la dispacciatura operativa.Rullaggio e decollo: la “cabina sterile”Durante le fasi critiche—rullaggio, decollo e avvicinamento/atterraggio—la regola della “cabina sterile” impone di ridurre al minimo distrazioni e conversazioni non operative. Le chiamate sono standardizzate (“set thrust”, “V1”, “rotate”), la decisione di proseguire o interrompere la corsa è stata anticipata nel briefing, e il profilo di salita può seguire procedure anti‑rumore (NADP) definite con l’aeroporto. In pochi secondi l’aereo passa dal peso di decollo alla fase di riduzione spinta, retrazione flap e accelerazione alla velocità di salita.Climb & cruise: automazione, dati e collegamenti digitaliIn quota, l’automazione governa assetto e navigazione attraverso FMS, autopilota e autothrust seguendo rotte RNAV e livelli assegnati. Accanto alla fonia VHF, si usano collegamenti dati con i controllori (CPDLC/Data Comm) per autorizzazioni scritte e più chiare, soprattutto in rotta o in spazi aerei ad alta densità. L’EFB continua a essere il “cruscotto informativo”: revisioni meteo, deviazioni rotta, fuel management e analisi delle turbolenze con strumenti di nowcast/forecast che integrano dati oggettivi (EDR) inviati da migliaia di velivoli.Turbulenza: prevenzione, cintura allacciata e decisioni tempestiveLe compagnie adottano piattaforme che aggregano segnalazioni di turbolenza quasi in tempo reale, affiancando i tradizionali modelli previsionali. Non tutta la turbolenza si vede al radar (quella in aria chiara è insidiosa), quindi l’istruzione basilare resta la stessa: cintura allacciata quando il segnale è acceso e oggetti stivati. Episodi recenti hanno ribadito che un singolo evento può generare infortuni gravi: per questo, in cabina si anticipano cambi di livello e rotta, si coordina il servizio di bordo con l’equipaggio di cabina e, quando serve, si privilegia prudenza e comfort.Gestione della fatica: turni, riposi e “controlled rest”La programmazione dei turni e i limiti di impiego dei piloti sono stabiliti da regole stringenti. In alcune giurisdizioni, in condizioni ben definite e con protocolli precisi, può essere autorizzato un breve “controlled rest” in cabina per contrastare la sonnolenza inattesa, senza ridurre la sorveglianza operativa. Sui voli lunghi, equipaggi rinforzati garantiscono i cicli di riposo in cuccetta e la continuità operativa.Sicurezza della porta e accessi al flight deckLa porta della cabina è rinforzata e l’accesso è regolato da procedure che comprendono verifiche visive e coordinamento con il personale di cabina. Nelle nuove consegne di aerei destinati a taluni mercati si stanno introducendo barriere secondarie fisiche pensate per proteggere il cockpit nei rari momenti in cui la porta deve essere aperta in volo. L’obiettivo è aggiungere un ulteriore “strato” di protezione senza intralciare le normali operazioni.Avvicinamento e atterraggio: stabilità prima di tuttoLa discesa moderna punta a profili continui (CDO) che riducono rumore e consumi. In finale, la regola è chiara: approccio “stabilizzato” entro quote definite (velocità, assetto, traiettoria e configurazione corretti). Se uno di questi parametri sfugge oltre le tolleranze, il “go‑around” non è un fallimento ma una manovra di sicurezza incoraggiata dalle SOP: si riattacca, ci si riposiziona e si atterra in condizioni migliori. In bassa visibilità, autoland certificati consentono operazioni con minime molto ridotte, con requisiti proceduralizzati per velivolo, equipaggio e infrastrutture.Dopo il touchdown: non è finitaDissimulato dal sollievo dei passeggeri, il lavoro prosegue: gestione dell’uscita pista, check dei sistemi, note per la manutenzione e chiusura del volo. I dati registrati aiutano analisi di sicurezza e miglioramento continuo. Cresce inoltre l’uso di registratori voce moderni con capacità di registrazione estesa, per favorire indagini più efficaci in caso di evento.Il futuro prossimo: più dati, stessa mentalità di sicurezzaLa connettività aumenterà, i tool predittivi diventeranno più precisi e i flussi digitali tra cabina, compagnia e controllo traffico aereo saranno ancora più integrati. Al tempo stesso, proposte di riduzione dell’equipaggio sono oggetto di valutazioni prudenziali: l’obiettivo del settore resta invariato—mantenere o superare l’attuale livello di sicurezza, basato su procedure robuste, ridondanza e cultura del “no‑blame” quando la decisione più sicura è rimettere i motori al massimo e fare un altro giro.
Capaci: Ricostruzione 3d
Una nuova ricostruzione 3D, pubblicata online il 9 settembre 2025, rimette in sequenza ogni passaggio della strage di Capaci, dall’arrivo del convoglio all’aeroporto di Punta Raisi fino alla detonazione delle cariche sotto l’A29 alle 17:58. Il modello digitale integra atti processuali, testimonianze e rilievi del sito, offrendo una vista sincronizzata dei tempi di innesco, delle velocità del convoglio e degli effetti d’onda dell’esplosione sul manto stradale e sui veicoli.Dove e come fu collocato l’esplosivoLa scena chiave è il canale di scolo in cemento che attraversa trasversalmente l’autostrada: è qui che gli esecutori collocarono un carico compreso tra 300 e 500 kg, composto da tritolo, RDX e nitrato d’ammonio. L’ubicazione in un volume confinato e rigido elevò l’efficienza dell’onda d’urto verso l’alto, favorendo il “sollevamento” del piano viabile e la proiezione dei detriti.L’innesco e i margini temporaliLa ricostruzione mostra un sistema di innesco a radiocomando per modellismo collegato a detonatori elettrici. Dalla collinetta scelta come punto di osservazione—circa 900 metri in linea d’aria—gli attentatori dovevano compensare il ritardo tra impulso radio e accensione dei detonatori. Per calibrare quel ritardo eseguirono prove con una lampadina “flash” al posto dell’esplosivo, usando un oggetto fisso lungo la carreggiata come riferimento visivo. Il modello evidenzia la ristrettezza della finestra utile: assumendo una velocità attesa di 160 km/h (circa 44 m/s), ogni decimo di secondo equivale a oltre 4 metri percorsi; uno scarto di 2–3 decimi sposta già il bersaglio di 9–13 metri.La sequenza dell’attaccoIl convoglio era composto da tre Fiat Croma blindate: apripista, auto con Giovanni Falcone e Francesca Morvillo al centro, e chiusura dietro. La 3D evidenzia che l’esplosione investì in pieno l’auto di apertura; la vettura con Falcone non fu colpita direttamente ma finì contro la barriera di detriti e asfalto improvvisamente sollevata. Secondo ricostruzioni basate su testimonianze, un rallentamento imprevisto della Croma centrale—provocato dallo sfilamento delle chiavi dal cruscotto pochi istanti prima—alterò la posizione relativa delle auto nel momento dell’innesco.Geometria del cratere e dinamica dei danniLe misure del cratere corrispondono a un’ellisse di circa 14,3 × 12,3 metri, con profondità massima prossima ai 4 metri in alcuni tratti. La modellazione 3D distribuisce le pressioni impulsive in verticale (spinta che “sfiocca” l’asfalto verso l’alto) e in orizzontale (proiezione di frammenti e risucchio), spiegando sia lo sradicamento dei guardrail sia la traiettoria differenziale dei veicoli, compresa l’eiezione dell’apripista.Cosa aggiunge l’analisi 3D oggi - Rispetto alle ricostruzioni tradizionali, il 3D consente di:- quantificare i margini d’errore compatibili con l’innesco manuale a distanza;- visualizzare l’effetto “canale rigido” sull’amplificazione dell’onda d’urto;- allineare tempi reali (distanze, velocità, ritardi di sistema) con gli esiti materiali (forma del cratere, traiettorie dei rottami, danneggiamenti differenziati);- isolare le variabili comportamentali (come il rallentamento inatteso) dal puro effetto esplosivo.Quadro giudiziario essenzialeNegli anni, sentenze definitive hanno fissato responsabilità e ruoli nell’esecuzione e nel supporto logistico alla strage, consolidando il perimetro fattuale entro cui si muovono oggi anche le ricostruzioni digitali. L’inquadramento probatorio—dalle metodiche d’innesco ai flussi dell’esplosivo—è il basamento su cui si innesta la nuova modellazione 3D, che non sostituisce gli atti ma li rende leggibili con strumenti contemporanei.
Cecot, il carcere Conteso
CECOT, il mega-penitenziario costruito dal governo salvadoregno a Tecoluca, è diventato il simbolo della “guerra alle pandillas”: una struttura senza precedenti per dimensioni, livello di controllo e isolamento, e al centro di un acceso dibattito sui diritti umani.Dove si trova e com’è fattoIl complesso sorge in area rurale, ai piedi del vulcano San Vicente, lontano dai centri abitati. Il perimetro esterno è protetto da muri di cemento alti oltre dieci metri, doppi recinti elettrificati e 19 torri di guardia. All’interno si sviluppano padiglioni multipli con cortili blindati e percorsi separati per detenuti e personale. L’impianto di sorveglianza combina sistemi di videosorveglianza continua, porte a controllo elettronico e reparti di sicurezza che gestiscono ogni spostamento. La capacità dichiarata è di 40.000 posti: una scala che colloca CECOT tra le carceri più grandi del mondo.La vita dentro: massima sicurezza, massime restrizioniIl regime interno riduce al minimo le interazioni e prevede controlli h24. Le celle sono sovraffollate, con letti a castello metallici, servizi igienici condivisi e illuminazione artificiale costante. Sono previste sezioni di isolamento per sanzioni disciplinari. Non sono consentite visite familiari né programmi ordinari di istruzione o riabilitazione; la comunicazione con l’esterno è fortemente limitata e l’accesso di osservatori indipendenti è ristretto.Il contesto: lo “stato d’eccezione”CECOT nasce nel 2023 nel pieno dello stato d’eccezione avviato nel 2022 dopo una feroce ondata di omicidi. In questo quadro sono state effettuate decine di migliaia di arresti con custodie cautelari prolungate e processi di massa. Recenti riforme hanno ulteriormente esteso i tempi di detenzione preventiva e dilazionato l’avvio dei procedimenti per grandi gruppi di imputati.Perché è controversoOrganizzazioni per i diritti umani denunciano detenzioni arbitrarie, maltrattamenti, mancanza di garanzie procedurali e condizioni di reclusione inumane, con centinaia di decessi in custodia documentati a livello nazionale. Nel caso specifico di CECOT, le critiche si concentrano su isolamento, assenza di contatti con famiglie e avvocati, udienze telematiche di massa e carenza di programmi di reinserimento. Il governo replica che la durezza del regime è necessaria per impedire che i capi delle gang continuino a impartire ordini dall’interno e per consolidare la drastica riduzione degli omicidi registrata nel Paese.La dimensione internazionale: i detenuti deportati negli USANel 2025 CECOT è entrato anche nella cronaca internazionale per l’accordo con Washington: centinaia di migranti—per lo più venezuelani—deportati dagli Stati Uniti sono stati trasferiti qui senza processo nell’immediato. Il trasferimento, finanziato con fondi statunitensi, ha scatenato un’ondata di contestazioni legali e testimonianze di abusi, alimentando la percezione di CECOT come luogo di detenzione estrema e opaca.Sicurezza vs. diritti: il bilancio provvisorioSul piano della sicurezza pubblica, i dati sugli omicidi indicano un minimo storico e un consenso interno molto alto verso la linea dura. Sul piano dello Stato di diritto, però, la perdurante eccezionalità normativa, la detenzione prolungata senza processo e la segretezza operativa di CECOT alimentano timori di abusi sistemici e di un modello penale poco compatibile con gli standard internazionali.ProspettiveIl governo ha annunciato l’intenzione di ampliare ulteriormente l’infrastruttura carceraria, mentre in parlamento avanzano norme per gestire i macro-processi. Se CECOT resterà soprattutto un ingranaggio di detenzione di massa o se verrà ricondotto a un sistema più trasparente e garantista dipenderà dalle scelte istituzionali dei prossimi mesi—e dalla pressione della comunità internazionale. Nel frattempo, la struttura resta, insieme, il simbolo del giro di vite sulla criminalità e il fulcro delle polemiche sul prezzo pagato in termini di diritti.
Sardegna: Vita da Minatori
Sotto le scogliere di Masua e tra i poggi del Sulcis-Iglesiente, la Sardegna custodisce ancora un cuore di roccia. Qui il lavoro “da minatore” non è scomparso: è cambiato pelle. Alle vecchie gallerie del carbone si affiancano cantieri di messa in sicurezza, bonifiche ambientali, siti museali e cave lapidee dove perforazioni, tagli e brillamenti scandiscono turni, procedure e allarmi. La scena quotidiana resta quella di elmetti, maschere antipolvere e sirene: crolli da prevenire, polveri da abbattere, esplosioni da programmare.Dopo il carbone: chiusure e riconversioniLa produzione di carbone nell’ultima miniera del Sulcis si è fermata a fine 2018. Da allora l’area vive una lunga fase di chiusura “assistita”: messa in sicurezza, ripristino dei siti, riconversione industriale. Nel 2025 la Regione ha imboccato la fase finale: tutele per i lavoratori rimasti e un percorso di rilancio che punta su ricerca, energie pulite e nuovi usi delle infrastrutture sotterranee. L’immagine del minatore, qui, oggi è spesso quella di chi ispeziona gallerie, mette centine, drena, monitora pareti e imbocchi per ridurre il rischio di cedimenti.Crolli evitati: sicurezza e cantieri in ex siti minerariDove la roccia “tira” e le volte sono fragili, il primo compito è impedire i crolli. Nei poli storici – Monteponi, Campo Pisano, Serbariu – la giornata di molti addetti scorre tra consolidamenti, recinzioni di gallerie dismesse, drenaggi e coperture provvisorie. È un lavoro silenzioso e tecnico, fatto di carotaggi, reti paramassi, chiodature e colate: la differenza tra un tunnel riaperto ai visitatori e un varco interdetto per rischio di collasso.Polvere: la linea rossa della saluteLa polvere resta il nemico invisibile. La storia mineraria sarda ha conosciuto la silicosi; oggi la prevenzione è routine: abbattimento polveri con acqua in perforazione e taglio, ventilazione forzata nelle cavità, DPI ad alta efficienza. Nei cantieri di bonifica e nelle cave, i protocolli obbligano a misurare, bagnare, aspirare. È anche una questione di cultura della sicurezza: checklist ad ogni cambio turno, presidi sanitari e formazione sulle esposizioni alla silice cristallina.Esplosioni controllate: il brillamento come mestiere“Esplosioni” in Sardegna significa soprattutto cava. Nelle litologie compatte si alternano filo diamantato, segatrici a catena e brillamenti programmati. Nulla è lasciato al caso: gli esplosivi omologati, i detonatori, i tempi di ritardo, l’evacuazione e le sirene sono regolati da norme stringenti. Il minatore di cava – spesso “artificiere” abilitato – prepara i fori, carica, sigilla, mette in sicurezza, segnala. Il boato dura secondi; il resto è controllo e ripristino.Numeri e lavoro: le cave del marmo di OroseiSul versante orientale, le cave del Marmo di Orosei sono tra i cantieri lapidei più rilevanti d’Italia. In vasche “a cielo aperto” si estraggono blocchi che alimentano segherie e laboratori in tutta Europa. È un lavoro fisico e specialistico: si manovrano fili diamantati, pale gommate da decine di tonnellate, carriponte, si orientano i tagli lungo i piani di stratificazione per ridurre fratture e scarti. La polvere calcarea imbianca tutto: per questo si nebulizza, si lava, si copre. E quando la roccia non concede, torna il brillamento, con finestre operative puntuali per ridurre vibrazioni e rischi.Incidenti che ricordano quanto sia sottile il margineSe procedure e tecnologia hanno alzato l’asticella della sicurezza, il rischio non scompare mai. Le cronache del 2025 hanno ricordato quanto una scala, un bordo cava, un ancoraggio possano trasformarsi in una caduta grave. È la ragione per cui nei piazzali si ridisegnano percorsi separati uomo-mezzo, si forzano imbragature anche per lavori “di pochi minuti”, si moltiplicano parapetti e linee vita.Bonifiche e memoria: Monteponi, Serbariu, Porto FlaviaAccanto ai cantieri, c’è la memoria viva. La Grande Miniera di Serbariu ha sospeso le visite nel 2024 per lavori di ristrutturazione; Monteponi continua interventi su discariche storiche e fronti instabili; gallerie e tratti ferroviari dismessi vengono riaperti o chiusi in base ai nuovi rilievi di sicurezza. Sul mare, Porto Flavia e la Laveria Lamarmora restano simboli mondiali di archeologia industriale: qui il paesaggio chiede protezione e coerenza con qualsiasi progetto contemporaneo.Il paesaggio del lavoro: camminare sulla storiaLa fatica dei minatori si può ancora “toccare” a piedi. Il Cammino Minerario di Santa Barbara è un anello di circa 500 chilometri in 30 tappe che unisce laverie, pozzi, villaggi e scogliere. È diventato un volano economico per B&B, rifugi, guide e trasportatori locali: un modo per trasformare trincee e gallerie in itinerari, senza rimuovere le ferite del territorio.Dal sottosuolo all’energia: idrogeno, gravità e datiIl futuro del lavoro “in miniera” potrebbe essere energetico: laboratori e progetti sull’idrogeno verde a Carbonia, prototipi di accumulo gravitazionale che usano pozzi e cavità come “batterie”, perfino data center energivori che appoggiano a connessioni e infrastrutture elettriche esistenti. È una riconversione che chiede competenze tecniche da minatori 4.0: cablaggi in sotterraneo, sensoristica, gestione del rischio, logistica ipogea.Tradizioni che resistono: Santa BarbaraIl 4 dicembre, tra Montevecchio, Iglesias e i paesi minerari, si celebra la patrona dei minatori e degli artificieri. È il giorno in cui i caschi sfilano accanto ai simulacri, le sirene tacciono e le storie di galleria si raccontano a cielo aperto. Un rito civile oltre che religioso: una comunità che si riconosce nel lavoro e nei suoi caduti.ConclusioneIn Sardegna il mestiere del minatore non è un reperto museale. È un lavoro che continua – diverso, più tecnico, più normato – nelle bonifiche, nelle cave, nei siti di archeologia industriale e nei progetti energetici. La triade che lo definisce resta la stessa: crolli da evitare, polvere da domare, esplosioni da governare. È in quell’equilibrio che si misura, giorno per giorno, la vita dei minatori di oggi.
Ivana: Dal buio del Fentanyl
«Il fentanyl era la risposta al mio disagio». È la frase con cui Ivana, oggi 28enne, sintetizza un passato di sofferenza e di dipendenza da oppioidi. La sua testimonianza, raccontata nel terzo episodio (EP.3) di una serie di interviste divulgative, è la cronaca di una caduta e di una risalita che parlano a molte famiglie italiane.Figlia di due medici, cresciuta tra Arezzo e le radici ugandesi trasmesse dalla nonna, Ivana descrive un’infanzia serena incrinata all’ingresso nell’adolescenza: isolamento, episodi di razzismo, la sensazione di non appartenere. Prima l’alcol, poi – durante il liceo – il salto ai farmaci presenti in casa: morfina e soprattutto fentanyl, un oppioide sintetico potentissimo. Non cercava “lo sballo”, dice, ma l’anestesia emotiva: spegnere dolore, ansia, inadeguatezza. La tolleranza è cresciuta, così come le crisi d’astinenza, fino a chiuderla per mesi in un appartamento, prigioniera di un consumo incessante.Nel tentativo di ricucire le ferite identitarie, i familiari la mandano per un periodo in Uganda. Lì, una rapina finita in tragedia – lo zio ucciso e lei stessa ferita – segna un’ulteriore frattura. Al ritorno in Italia, la dipendenza riprende il sopravvento. La svolta arriva grazie alla nonna: a 80 anni lascia tutto, la accompagna in una clinica di disintossicazione a Verona e poi in comunità. È in quel contesto che Ivana impara a raccontarsi, ad accettare la vulnerabilità e a costruire nuove abitudini.In comunità scopre la corsa. Non come gara, ma come ascolto di sé. Chilometro dopo chilometro, arriva a concludere la sua prima maratona a Verona. Nel frattempo riemerge un desiderio antico, cresciuto in una casa di camici e stetoscopi: studiare Medicina. Oggi Ivana è iscritta al secondo anno e vive a Firenze. Il suo messaggio ai coetanei è netto: chiedere aiuto funziona; la rete di cura e di prossimità – famiglia, comunità, professionisti – può salvare la vita.Il caso personale non va letto fuori contesto. Il fentanyl è un analgesico oppioide di potenza eccezionale (decine di volte superiore alla morfina) con effetti terapeutici imprescindibili in ambito clinico, ma capace – se usato fuori controllo medico – di indurre rapidamente dipendenza e di provocare overdose per depressione respiratoria. L’antidoto di riferimento, il naloxone, può invertire l’overdose se somministrato tempestivamente, ma l’elevata potenza degli analoghi impone formazione capillare e risposta rapida.L’Italia, pur non registrando i numeri degli Stati Uniti, ha alzato il livello di guardia. Nel 2024 è stato varato un Piano nazionale di prevenzione contro l’uso improprio di fentanyl e altri oppioidi sintetici, con azioni coordinate: monitoraggio dei mercati, allerta rapida, tracciamento delle prescrizioni anomale, formazione degli operatori sanitari e della rete di emergenza, sensibilizzazione dei servizi territoriali. Nello stesso anno, un campione di eroina venduta a Perugia è risultato contenere una quota di fentanyl: un episodio che ha fatto scattare procedure di allerta e rafforzato i controlli.Sul fronte europeo, nell’agosto 2025 sono entrate in vigore nuove misure sui precursori chimici utilizzati nelle sintesi illecite, con l’inclusione di due intermedi chiave tra le sostanze più rigidamente controllate. È un tassello cruciale: limitare a monte i mattoni chimici rende più difficile produrre fentanyl e analoghi destinati al mercato illegale.La storia di Ivana non è un’eccezione miracolistica, ma l’evidenza che prevenzione, cura e comunità funzionano. Tre i punti che emergono con forza:1) Riconoscere presto il disagio – ansia, isolamento e discriminazione sono fattori di rischio reali; ignorarli apre la strada all’automedicazione pericolosa.2) Abbattere lo stigma – chi chiede aiuto non è “debole”: è competente sul proprio benessere. Lo stigma ritarda l’accesso alle cure.3) Integrare le risposte – medicina delle dipendenze, psicoterapia, interventi sul contesto di vita e strumenti di riduzione del danno (incluso l’accesso al naloxone) devono coesistere.Nel suo EP.3, Ivana consegna una bussola a studenti, famiglie e decisori: dare parole al dolore, chiedere aiuto e pretenderlo, sostenere chi cura. È così che si spezza l’equazione tossica “disagio = oppioidi” e si restituisce alle persone la possibilità di futuro.
Che cosa sente il Corpo in RM?
Cosa succede al nostro corpo durante una risonanza magnetica? All’esterno la risonanza magnetica (RM) sembra silenziosa; all’interno, il nostro corpo entra in un ambiente fisico molto controllato in cui agiscono tre componenti: un campo magnetico statico potente, campi magnetici che variano rapidamente (gradienti) e onde radio (RF). È la combinazione di questi elementi a generare le immagini — e anche le sensazioni più comuni che i pazienti riferiscono.L’allineamento dei protoni: il “segreto” dell’immagineLe molecole d’acqua e di grasso del corpo contengono atomi di idrogeno. Il campo magnetico della RM orienta i loro protoni; brevi impulsi di radiofrequenza li spostano e, quando cessano, l’energia rilasciata viene “raccolta” dalle antenne del sistema e trasformata in immagini. Questo processo è impercettibile: non si sente l’azione del magnete né delle onde radio.Che cosa si percepisce davvero- Rumore: durante l’esame si avvertono colpi ritmati, fischi o “battiti” rapidi. Non sono segno di guasto, ma l’effetto meccanico dei gradienti che vibrano. Le strutture forniscono sempre protezioni acustiche (tappi o cuffie); con questi dispositivi l’esposizione sonora rientra nei limiti di sicurezza previsti.- Formicolii o piccoli “sussulti” muscolari: sono dovuti alla rapida variazione dei gradienti, che può stimolare in modo transitorio i nervi periferici. Di solito sono lievi e passeggeri; è sufficiente avvisare il tecnico se disturbano.- Lieve sensazione di calore: l’energia RF può generare un modesto riscaldamento cutaneo o corporeo, tenuto sotto controllo dal sistema mediante limiti di potenza (SAR) e pause tra le sequenze.- Capogiri o nausea, specialmente quando ci si muove dentro/fuori dal gantry: nei campi più elevati può comparire un transitorio senso di vertigine perché il magnete interagisce con l’apparato vestibolare dell’orecchio interno. In rari casi si osservano fosfeni (piccoli lampi di luce periferici), innocui e di breve durata.Durata e immobilitàIn base alla regione anatomica e al protocollo, un esame tipico dura circa 15–60 minuti. Restare immobili — e seguire eventuali istruzioni di respiro — evita immagini mosse e ripetizioni.Prima di entrare in salaÈ essenziale rimuovere tutti gli oggetti metallici o elettronici (gioielli, orologi, smartphone, carte magnetiche), indossare abiti senza inserti o filati metallici e, se è interessata la testa, evitare cosmetici con pigmenti metallici (mascara/eyeliner “glitter”). Mascherine, cerotti o sensori con parti metalliche vanno sostituiti con dispositivi compatibili.Impianti e dispositiviMolti impianti moderni (pacemaker, defibrillatori, neurostimolatori, pompe, protesi, stent) sono etichettati come MR Safe o MR Conditional. Oggi la RM è spesso possibile anche nei portatori di dispositivi cardiaci, purché in centri esperti e con protocolli dedicati (programmazione del dispositivo, monitoraggio e parametri di scansione specifici). È fondamentale dichiarare sempre qualsiasi impianto, vecchio o nuovo, e presentare il tesserino del dispositivo.Tatuaggi, trucco permanente e accessoriIn rari casi i tatuaggi o il trucco permanente possono dare sensazioni di calore, pizzicore o lieve bruciore nella zona tatuata, soprattutto se l’inchiostro contiene particelle conduttive. Si tratta quasi sempre di fenomeni transitori; informare preventivamente l’equipe aiuta a prevenire o gestire il disturbo.Contrasto al gadolinio: quando serve e quali effetti aspettarsiIl mezzo di contrasto a base di gadolinio si somministra solo se migliora la qualità diagnostica. Nella maggior parte dei pazienti gli effetti indesiderati sono rari e di solito lievi (per esempio nausea passeggera o alterazione del gusto). Da anni è noto che piccolissime quantità di gadolinio possono persistere nell’organismo: le autorità hanno perciò limitato l’uso di alcuni agenti “lineari”, privilegiando formulazioni macrocicliche, più stabili. Per le persone con grave insufficienza renale si valutano con attenzione indicazione e tipo di agente. In gravidanza l’impiego del contrasto si riserva solo ai casi in cui il beneficio superi chiaramente i rischi; durante l’allattamento, nella maggior parte delle situazioni non è necessario interrompere le poppate dopo la somministrazione.Gravidanza e bambiniLa RM senza contrasto è considerata l’esame di scelta quando occorre evitare radiazioni ionizzanti in gravidanza. Nei bambini, per alcune indagini, può servire sedazione leggera (per restare immobili), con monitoraggio anestesiologico e protocolli dedicati.Claustrofobia: come si affrontaTra l’1% e il 15% dei pazienti riferisce claustrofobia o ansia. Oltre a informazione e tecniche di respirazione, aiutano i sistemi wide‑bore (apertura fino a 70 cm), ambienti con musica/illuminazione dedicata, visori a specchio per “allargare” lo spazio percepito o, se necessario, una blanda sedazione. In selezionati casi si può ricorrere a piattaforme “open”, accettando i possibili compromessi di qualità e tempo.Rischi rari ma reali e perché lo screening è decisivoLe complicanze gravi sono rare. Le più frequenti, se le procedure non vengono seguite, sono ustioni cutanee (per contatto prolungato con la parete del tunnel, cavi/elettrodi che formano “anelli” o dispositivi non compatibili) e incidenti da effetto proiettile quando oggetti ferromagnetici entrano per errore in sala. Per questo lo screening è minuzioso e molte strutture adottano anche rilevatori ferromagnetici in ingresso. Collaborare con i professionisti — dichiarando impianti, ferite metalliche, tatuaggi e stati fisiologici — è la misura di sicurezza più importante.Consigli pratici, in breve• Portare documentazione di impianti o protesi;• Indossare abiti senza parti metalliche; niente cosmetici metallici se si studia la testa;• Segnalare tatuaggi e trucco permanente;• Avvisare se si è in gravidanza o si allatta;• Comunicare eventuale claustrofobia: esistono soluzioni dedicate;• Restare immobili, seguire le istruzioni di respiro e usare sempre la protezione auricolare.
Crack per sentirmi forte
«Facevo uso di crack per sentirmi forte»: la storia di Tiziana, oggi tatuatrice - C’è una frase che sintetizza la parabola di Tiziana, 31 anni: «facevo uso di crack per sentirmi forte». Non per “staccare la spina”, ma per reggere una maschera di invulnerabilità costruita negli anni, quando la paura di essere ferita si era trasformata in aggressività e nel bisogno di apparire intoccabile. Oggi Tiziana è tatuatrice — e anche corriere — e la sua vicenda è una testimonianza concreta di come il lavoro sulle proprie fragilità, più ancora che sulla sostanza, possa segnare la rinascita.La sua insicurezza affonda le radici nell’infanzia. Il cambio di scuola e di paese l’aveva fatta sentire «l’ultima arrivata». Per distinguersi, scelse di diventare la “pecora nera”: frequentava persone più grandi e dall’aria “sbagliata”, non per attrazione verso quel mondo, ma per proteggersi. L’aggressività era la corazza: attaccare prima di essere attaccata.L’incontro con le sostanze avviene presto, a 13 anni. Prima la cannabis, poi la cocaina e l’ecstasy. Ma non si trattava di un viaggio per evadere: Tiziana parla di una “dipendenza dall’immagine”, dall’interpretare il ruolo della ragazza dura. La prova è in un episodio spartiacque: durante una relazione con un ragazzo che non faceva uso di droghe, smette tutto — e lo fa senza difficoltà — per due anni. Segno che non cercava lo sballo, ma quella sensazione di potenza che le permetteva di non mostrarsi fragile.Quando quella storia finisce, il castello crolla. Ricomincia con la cocaina e il passo verso il crack è rapido. L’isolamento diventa totale; il corpo dimagrisce fino a 48 chili; la vita sociale si spegne. Un incidente d’auto funziona da detonatore: i genitori pongono un ultimatum, “comunità o fuori casa”. Dopo una settimana da sola, Tiziana capisce di aver toccato il fondo e chiede aiuto.In comunità resta tre anni e mezzo. Non ne esce “cambiata” nel carattere — come ripete — ma finalmente capace di gestire l’insicurezza senza scudi aggressivi. Il lavoro quotidiano le insegna a riconoscere la parte vulnerabile e a non temerla: la dipendenza era anche un modo per sostenere il personaggio che si era cucita addosso. Disinnescato quel meccanismo, le sostanze perdono la presa.Oggi Tiziana ha un presente concreto: lavora come tatuatrice e come corriere, due professioni che le restituiscono autonomia e responsabilità. Nella sala di un tattoo studio, la manualità fine, l’ascolto del cliente, la pianificazione di un progetto sulla pelle: è un lavoro che chiede concentrazione, fiducia e cura. Sono gli opposti della chiusura e della fuga che avevano scandito gli anni bui.C’è anche un messaggio alla sé tredicenne, che suona come un controcanto alla maschera dell’onnipotenza: non temere il giudizio degli altri, perché ci sarà sempre; sii te stessa, anche quando ti senti “non abbastanza”. È l’invito a riconoscere che non piaceremo mai a tutti, e che va bene così. Per lei, accettare l’aiuto non è stato un gesto di debolezza, ma il primo passo per smettere di «buttare via il tempo» e ricominciare a crescere.La vicenda di Tiziana illumina un punto spesso rimosso del discorso pubblico: non sempre si fa uso di cocaina o crack per “scappare”, a volte lo si fa per reggere un’identità di ferro che nasconde buchi profondi di autostima. Per questo i percorsi efficaci non si limitano alla sostituzione della sostanza, ma lavorano sulle emozioni, sulle relazioni e sul modo in cui ci si percepisce. La sua rinascita non è il colpo di scena di un giorno, ma la somma di scelte quotidiane, limature, ricadute evitate e nuove abitudini.Guardare questa storia nella cornice più ampia aiuta a capirne la portata. In Italia, i segnali sul fronte degli stimolanti — cocaina e crack — restano preoccupanti, e i percorsi residenziali di lunga durata hanno tipicamente un orizzonte di circa tre anni. Sono proprio tempi così lunghi a permettere di scalfire le “armature” costruite negli anni, come mostra il caso di Tiziana. La sua è una cronaca di vulnerabilità affrontata, più che un racconto di eroismi: e proprio per questo parla a molti.
Hansel e Gretel: La bufala
Negli ultimi giorni è tornata a circolare l’idea che un “archeologo tedesco” avrebbe dimostrato che Hansel e Gretel fossero in realtà due assassini vissuti nel Seicento. È una narrazione seducente, ma non corrisponde ai fatti storicamente verificabili. Quella tesi nasce nel 1963 da un’operazione editoriale che imitava in modo perfetto i codici della saggistica scientifica: un libro costruito come un’inchiesta con fotografie, presunti reperti, perizie antropologiche e documenti d’archivio. L’“archeologo” citato in quel volume, però, non è mai esistito, e la ricostruzione è stata smontata pubblicamente già l’anno successivo.Come nasce la storia dei “due assassini”La narrazione oggi rilanciata online racconta di un insegnante appassionato di scavi che, nei boschi dello Spessart, avrebbe individuato i resti di una casupola con quattro forni; all’interno, le ossa parzialmente bruciate di una donna sui trentacinque anni e, in una cassetta di ferro, utensili da forno e un’antica ricetta di panpepato. Incrociando indizi linguistici e fonti locali, il sedicente ricercatore avrebbe identificato la vittima con una celebre pasticciera del XVII secolo, Katharina Schraderin; i colpevoli, secondo questa trama, sarebbero stati un fornaio di Norimberga, Hans Metzler, e la sorella Grete, mossi dal desiderio di impossessarsi della ricetta dei lebkuchen. Il delitto sarebbe avvenuto nel 1647, in piena Guerra dei Trent’anni: una versione “realistica” che ribalta la fiaba trasformando la “strega” in una professionista uccisa e i due protagonisti in un duo di omicidi.Che cosa è stato accertatoQuella ricostruzione non è una scoperta archeologica, ma un esempio di “non‑fiction fittizia” messo in scena da un autore tedesco con fine ironia e grande perizia narrativa. Il presunto “professor Georg Ossegg” non è mai esistito; le immagini di scavo – divenute iconiche – ritraevano l’autore stesso travestito; parte dei “reperti” era di provenienza domestica; la ricetta attribuita alla vittima coincideva con un testo di largo consumo dell’epoca. A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione, l’operazione fu svelata come una parodia della moda delle scoperte archeologiche “a effetto” e come un esperimento sui meccanismi con cui il pubblico tende ad attribuire autorità a un racconto che indossa gli abiti della ricerca.Perché l’idea continua a riemergereL’impianto funziona perché è calibrato sui nostri automatismi cognitivi: fotografie in bianco e nero di “scavi” e “documenti”, un lessico pseudo‑accademico, cronologie e toponimi precisi, collegamenti ingegnosi tra fiaba, linguistica e geografia. A questo si è aggiunta, nel tempo, la circolazione secondaria: nuove edizioni del volume, traduzioni (in Italia il titolo è apparso già nei primi anni Ottanta), un adattamento cinematografico negli anni Ottanta e riprese in programmi e podcast di divulgazione che la presentano esplicitamente come una burla esemplare. Dall’altro lato, piattaforme e pagine web periodicamente rilanciano la tesi come “vera storia dietro la fiaba”, spesso senza ricordare – o senza sapere – che si tratta di un falso letterario dichiarato tale dall’autore e documentato da verifiche indipendenti fin dal 1964.Cosa resta, davvero, della fiabaLe fiabe raccolte nell’Ottocento non sono cronache giudiziarie: sedimentano paure, memorie di carestie e processi alle streghe, traumi sociali e morali di un’Europa pre‑industriale. È legittimo studiarne il rapporto con la storia sociale; non è legittimo, però, attribuire loro un caso di omicidio “con nomi e cognomi” senza prove. Per Hansel e Gretel, al di fuori dell’operazione satirica del 1963, non esiste alcuna evidenza archivistica o materiale che dimostri l’esistenza di due fratelli assassini responsabili dell’uccisione di una pasticciera nel 1647.Il puntoNon c’è un “cold case” risolto da un archeologo tedesco: c’è la storia, ben documentata, di una burla editoriale che ha insegnato quanto un racconto confezionato con gli strumenti della scienza possa sembrare vero anche quando non lo è. Ed è per questo che, ancora oggi, la tesi riaffiora ciclicamente online: perché è verosimile, perché è affascinante e perché parla alla nostra voglia di trovare nel mito un fatto nudo e crudo. Ma i fatti, quelli controllabili, dicono altro.
Analisi del mq‑9 Reaper
L’MQ‑9 Reaper è il primo drone dell’US Air Force progettato come hunter‑killer a lunga autonomia. Nato nella seconda metà degli anni 2000 per sostituire l’MQ‑1 Predator, utilizza un motore turboelica Honeywell TPE331 da oltre 900 cavalli che aziona un’elica a quattro pale. Grazie all’ala di 20 metri e a un carico alare relativamente basso, la piattaforma può volare per più di 27 ore con una configurazione standard e oltre 30 ore nella versione Extended Range con serbatoi subalari. L’altitudine operativa supera i 15 mila metri e la cellula è progettata per essere smontata e trasportata in un unico container, semplificando lo schieramento su teatri remoti.Sensori e armi: sorveglianza e potenza di fuocoA differenza di droni più leggeri, il Reaper può trasportare fino a 1 700 kg di carico utile, inclusi sensori avanzati e armamento. Il suo Multi‑Spectral Targeting System integra telecamere a infrarossi, sensori a colori e monocromatici, visione a onda corta e designatori laser, fornendo un’unica immagine fusa ai piloti remoti. Una radar ad apertura sintetica (SAR) permette di riconoscere bersagli nascosti da nuvole o fumo.Come armamento standard può impiegare otto missili AGM‑114 Hellfire per colpire mezzi e installazioni, bombe a guida laser come GBU‑12/38 Paveway II, GPS‑IN/laser come GBU‑49 (Enhanced Paveway II) e bombe guidate JDAM. Negli ultimi anni il drone è stato testato con l’AIM‑9X Sidewinder e persino con loitering munition Switchblade 600. Durante un’esercitazione del 2024 nel Mar Rosso, un Reaper ha lanciato un missile Hellfire contro un oggetto aereo non identificato; l’evento è stato il primo impiego operativo di un Reaper in un ingaggio aria‑aria. Nell’estate 2025 due Switchblade 600 sono stati sganciati da un MQ‑9 in volo, trasformando l’aereo in una “nave madre” in grado di estendere la portata dei propri sensori e armi.Evoluzioni recenti: autonomia, cybersecurity e difesaLa struttura modulare del Reaper ha permesso a General Atomics di introdurre nel tempo numerosi aggiornamenti.Extended Range: l’aggiunta di serbatoi subalari, un’elica a quattro pale e un sistema di iniezione acqua/alcool aumenta autonomia e capacità di carico. Questa variante è stata adottata dal Corpo dei Marines come Block 5 ER, con avionica ridondata e maggiore potenza elettrica per alimentare sensori e pod aggiuntivi.Multi‑Domain Operations (M2DO): gli aggiornamenti previsti dall’US Air Force includono antenne SATCOM con banda raddoppiata e latenza ridotta per integrare sensori avanzati, sistemi antijamming GPS, datalink Link 16, architettura “plug‑and‑play” e maggiore automazione per consentire a un solo operatore di controllare più aeromobili. È stata introdotta la funzione auto‑takeoff and landing, riducendo l’esposizione del personale nelle basi avanzate.Cybersecurity e autoprotezione: dopo numerosi abbattimenti da parte dei ribelli Houthi in Yemen, l’US Air Force ha avviato programmi per aumentare la resilienza del Reaper. Il progetto formal methods analizza matematicamente il software per eliminare vulnerabilità, riducendo il rischio di hackeraggio. La società Shift5 sta integrando moduli di rilevamento delle anomalie informatiche e manutenzione predittiva. Inoltre, è in sviluppo il pod Airborne Battlespace Awareness and Defense (ABAD), che incorpora sensori a radiofrequenza e infrarossi e contromisure elettroniche da BAE Systems e Leonardo DRS per rilevare e neutralizzare minacce missilistiche. L’obiettivo è permettere al Reaper di sopravvivere in spazi aerei contesi.Pod e sensori aggiuntivi: il Corpo dei Marines sta installando il pod SkyTower II, che funge da ripetitore e consente di creare una rete di comunicazione multi‑dominio tra forze terrestri, navali e aeree. Insieme al sistema passivo RDESS/SOAR, capace di intercettare e geolocalizzare segnali d’interesse imitando emissioni e rendendo il drone quasi invisibile ai radar avversari, questi pod trasformano l’MQ‑9 in un “quarterback digitale” che orchestra sensori e unità sul campo. I Marines prevedono anche sensori intelligenti con intelligenza artificiale per ridurre il carico di lavoro degli operatori.Armi futuristiche: General Atomics sta sviluppando un laser ad alta energia da 25 kW per la variante MQ‑9B, pensato per difendere le flotte navali e abbattere droni o missili a basso costo. Sebbene ancora sperimentale, il pod mostra come il Reaper possa evolversi in una piattaforma di difesa attiva.Impieghi operativi e contesto internazionaleL’MQ‑9 Reaper è impiegato da Stati Uniti, Italia, Francia, Regno Unito e altri Paesi. La U.S. Air Force lo utilizza per sorveglianza e attacchi mirati contro gruppi terroristici in Medio Oriente e Africa. Dal 2023 i ribelli Houthi hanno iniziato a rivendicare l’abbattimento di diversi Reaper; in primavera 2025 ne sono stati distrutti sette in sei settimane, per un costo superiore a 200 milioni di dollari. Queste perdite hanno spinto il Dipartimento della Difesa ad accelerare gli aggiornamenti e a ripensare l’impiego del drone in aree con difese aeree anche rudimentali.Nel Pacifico il Reaper sta guadagnando un ruolo cruciale: nel settembre 2025 l’US Air Force ha riattivato il 431st Expeditionary Reconnaissance Squadron a Kunsan, in Corea del Sud, dotandolo di MQ‑9 per sorveglianza e deterrenza contro la Corea del Nord. In Europa, l’Aeronautica francese ha eseguito nell’ottobre 2025 le prime prove di tiro con missili AGM‑114 Hellfire e bombe GBU‑49 su Reaper; grazie a nuove ali a lunga apertura e a un pod di comunicazioni COMINT, l’aereo può individuare, designare e colpire bersagli con maggiore rapidità. Nel Regno Unito, invece, il Reaper ha concluso le operazioni dopo 18 anni ed è stato sostituito dal più recente MQ‑9B Protector.Il Reaper è entrato anche nella dimensione navale: i Marines lo integrano con il pod SkyTower II per fornire allerta precoce e consapevolezza del dominio marittimo e per estendere le comunicazioni tra navi e forze anfibie. L’adozione di sensori AI dovrebbe consentire al corpo di impiegare il drone in maniera autonoma e di sviluppare una filiera propria di algoritmi, riducendo la dipendenza da fornitori esterni.Prospettive futureNonostante l’arrivo della variante MQ‑9B SeaGuardian/Protector e di progetti europei come Eurodrone, il Reaper rimarrà operativo ancora a lungo. L’US Air Force ha programmato di mantenere circa 140 esemplari fino al 2035, continuando ad aggiornarli con pod di difesa, sensori intelligenti e capacità di collegamento multi‑dominio. La combinazione di autonomia, potenza di fuoco e modularità rende l’MQ‑9 Reaper uno dei droni armati più versatili del panorama militare, capace di evolversi di fronte a minacce informatiche, difese aeree e scenari marittimi. Le innovazioni introdotte tra il 2023 e il 2025 dimostrano che l’hunter‑killer americano non è più solo un veicolo di sorveglianza: è diventato una piattaforma di comando, attacco e rete in grado di integrare sistemi intelligenti e di condurre missioni complesse in completa autonomia.
Ricostruzione 3D biodigestori
Nel cuore dell’area archeologica del Foro di Nerva, la Torre dei Conti era da secoli una sentinella di pietra. Costruita verso l’858 da Pietro dei Conti di Anagni sui resti del Tempio della Pace e ampliata nel 1203 da papa Innocenzo III per la nobile famiglia dei Conti di Segni, la torre medievale raggiungeva originariamente una altezza di cinquanta‑sessanta metri. Rivestita di travertino e arricchita da decorazioni, fu più volte mutilata dai terremoti del XIV e XVII secolo e venne rinforzata dai pontefici con due possenti contrafforti. Nel Cinquecento perse il rivestimento lapideo, riutilizzato per la costruzione di Porta Pia, e all’inizio del XX secolo fu isolata dal tessuto urbano durante gli sventramenti per via Cavour e via dei Fori Imperiali. Con i suoi 29 metri attuali, è uno dei pochi esempi di case‑torri sopravvissuti nel centro storico. Per decenni, la torre ha ospitato archivi e uffici; dal 2006, dopo lo sgombero dei locali, rimaneva inagibile e priva di manutenzione.Il progetto di restauro finanziato dal PNRRNegli ultimi anni la Torre dei Conti era al centro di un importante intervento di recupero inserito nel programma “Caput Mundi” del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il progetto, del valore di circa 6,9 milioni di euro, prevedeva la messa in sicurezza strutturale, la sostituzione degli impianti, l’installazione di un nuovo ascensore, la realizzazione di spazi museali, una sala conferenze e un centro servizi per l’area archeologica. Il primo lotto di lavori, del valore di circa 400 mila euro, avviato nel giugno 2023, comprendeva la bonifica dall’amianto e altre opere propedeutiche. Prima di aprire il cantiere erano state eseguite prove di carico, carotaggi e controlli statici che avevano giudicato la struttura idonea a sopportare l’intervento. L’intera opera avrebbe dovuto concludersi entro il 30 giugno 2026.Il giorno del crollo e le fasi dell’emergenzaLa mattina di lunedì 3 novembre 2025 si è consumata la tragedia. Intorno alle 11.20, mentre nove operai erano al lavoro nel cantiere, si è verificato un cedimento del contrafforte centrale sul lato sud della torre. Il crollo ha trascinato con sé parte del basamento, alcuni solai interni e la scala; la nuvola di polvere ha invaso largo Corrado Ricci. Quattro lavoratori sono riusciti a mettersi in salvo. Un secondo collasso, avvenuto verso le 13.00, ha complicato l’accesso ai soccorritori. Sul posto sono intervenuti più di cento vigili del fuoco con squadre Usar (Urban Search and Rescue), gru e dispositivi acustici per localizzare i dispersi. Uno dei pompieri ha riportato un’irritazione oculare a causa della polvere.Il cantiere è stato evacuato e l’area circostante è stata transennata. I soccorritori hanno estratto vivi due operai con ferite lievi e un terzo, ferito gravemente, ricoverato all’ospedale San Giovanni. Octav Stroici, operaio romeno di 66 anni, era rimasto intrappolato sotto le macerie al primo piano. Per oltre undici ore vigili del fuoco, medici e volontari hanno lavorato per raggiungerlo, facendogli arrivare ossigeno e acqua attraverso un tubo e mantenendo il contatto vocale con lui. Quando finalmente è stato estratto, alle 22.39, la folla ha applaudito. Trasportato d’urgenza al Policlinico Umberto I, è deceduto poco dopo a causa delle gravi lesioni da schiacciamento. La moglie, presente durante le operazioni, è stata assistita dagli psicologi del Comune.Indagini e possibili causeLa Procura di Roma ha aperto un fascicolo per omicidio colposo e disastro colposo a carico di ignoti. Gli investigatori hanno sequestrato tutta la documentazione relativa agli appalti, al progetto esecutivo e alle verifiche statiche. Una consulenza tecnica di novanta giorni è stata affidata a un collegio di ingegneri strutturisti per accertare se i lavori in corso fossero adeguati a un edificio così antico. Per monitorare eventuali ulteriori movimenti della struttura è stato installato un laser scanner. Nel frattempo, i carabinieri hanno ascoltato i titolari delle imprese edili (Edilerica Appalti e Picalarga srl) e gli operai sopravvissuti.I magistrati valuteranno anche se la scossa sismica di magnitudo 3,3 registrata nei Castelli Romani la sera del 1° novembre, le infiltrazioni d’acqua o la vegetazione penetrata nelle crepe possano aver indebolito la muratura. La Sovrintendenza Capitolina ha precisato che il cantiere non era stato affidato al massimo ribasso e che erano state coinvolte imprese specializzate nel restauro monumentale. Rimane aperta la questione dell’assemblaggio delle impalcature interne, dell’eventuale rimozione di travature provvisorie e di possibili errori di progettazione o di coordinamento della sicurezza.A scopo precauzionale sono state evacuate alcune famiglie di un edificio confinante con la torre. L’area dei Fori Imperiali rimane sotto sequestro e presidiata dalle forze dell’ordine. Intanto, l’autopsia ha confermato che Octav Stroici è morto per traumi da compressione, mentre le autorità invitano chiunque abbia filmato i momenti del primo crollo a consegnare i video per ricostruire con precisione la dinamica.Reazioni istituzionali e solidarietàIl sindaco di Roma Roberto Gualtieri si è recato sul posto già nelle prime ore dell’emergenza. Ha ringraziato pubblicamente vigili del fuoco, medici e volontari per l’impegno e ha sottolineato che la priorità era salvare la vita del lavoratore intrappolato. Il Campidoglio ha proclamato lutto cittadino per la giornata di mercoledì 5 novembre: le bandiere sugli edifici comunali sono state esposte a mezz’asta, sono state sospese le sedute del Consiglio regionale e rinviate alcune visite istituzionali. Anche il ministro della Cultura Alessandro Giuli ha parlato di una “tragedia che impone chiarezza e rigore” e ha garantito collaborazione totale alle indagini.Il dramma ha suscitato dolore anche in Romania: l’ambasciatrice Gabriela Dancau ha deposto un mazzo di fiori sotto la torre in memoria di Stroici. Il Governo di Bucarest ha espresso cordoglio e ha annunciato il rimpatrio della salma. I funerali si svolgeranno nella sua città natale nella settimana successiva al crollo. A Roma, un’ondata di commozione ha unito istituzioni e cittadini: la sera del 4 novembre sindacati e associazioni hanno organizzato una fiaccolata silenziosa vicino al Colosseo. I partecipanti hanno marciato con croci bianche adornate da caschi da cantiere, chiedendo leggi più severe sulla sicurezza sul lavoro e l’applicazione rigorosa delle norme esistenti.Prospettive future per la torre e la tutela del patrimonioIl parziale crollo della Torre dei Conti ha riaperto il dibattito sulla fragilità dei monumenti di Roma e sulla sicurezza dei cantieri finanziati con fondi pubblici. La sovrintendenza conferma la volontà di salvare e restaurare la torre, ma ogni decisione dovrà attendere gli esiti delle perizie. Il progetto originario puntava a restituire alla città una struttura sicura e fruibile: un museo dedicato alla storia medievale dei Fori Imperiali, una sala studio e un belvedere sulla terrazza.Il caso ha anche riportato l’attenzione sulla necessità di manutenzione ordinaria e monitoraggi periodici per i beni culturali, spesso trascurati fino a quando non emergono situazioni di emergenza. Molti esperti del settore ricordano che la tutela richiede investimenti programmati, personale qualificato e procedure rigorose, non soltanto finanziamenti straordinari. L’auspicio è che la tragedia spinga a un approccio più consapevole nella gestione del patrimonio: non scelte frettolose o demolizioni, bensì interventi rispettosi e scientificamente fondati, in grado di preservare la memoria storica e di garantire la sicurezza dei lavoratori.La memoria di Octav StroiciLa morte di Octav Stroici ha scosso profondamente l’opinione pubblica. Nato a Suceava, in Romania, si era trasferito a Roma per lavorare nell’edilizia e avrebbe dovuto andare in pensione l’anno successivo. I colleghi della Fenealuil lo ricordano come un lavoratore esperto, attento ai corsi di aggiornamento sulla sicurezza e impegnato nel sindacato. I sindacati chiedono che la sua storia non venga dimenticata e propongono di dedicargli uno degli spazi del futuro centro culturale.Nel frattempo, la città attende che giustizia faccia il suo corso. La Torre dei Conti continua a dominare i Fori Imperiali con la sua silhouette mutilata, monito della fragilità del nostro patrimonio e del prezzo pagato da chi lo custodisce. La speranza è che, dopo l’accertamento delle responsabilità, il monumento possa essere ricostruito, consolidato e riaperto al pubblico, trasformando il dolore in nuova consapevolezza e in un impegno più forte per la tutela dei luoghi della memoria.
Ricostruzione 3D incidente
Nel pomeriggio del 4 novembre 2025, un cargo MD‑11 della compagnia di logistica UPS è decollato dall’aeroporto internazionale Muhammad Ali di Louisville, in Kentucky, diretto verso Honolulu. Pochi secondi dopo il decollo, la semiala sinistra è stata avvolta dalle fiamme e l’aereo è precipitato su una zona industriale, generando una gigantesca palla di fuoco. Secondo quanto riferito dalle autorità, almeno quattordici persone hanno perso la vita e numerosi feriti sono stati soccorsi; tra le vittime vi erano tutti e tre i membri dell’equipaggio e diversi lavoratori a terra. L’incidente ha causato l’interruzione dei voli, l’evacuazione dell’area e un ordine di confinamento nelle zone circostanti.Il velivolo era stato caricato con carburante per un volo di oltre otto ore e, al momento dell’impatto, aveva raggiunto un’altezza di circa cento piedi (poco più di trenta metri) e una velocità vicina a 184 nodi. L’aereo, prodotto negli anni Novanta, aveva 34 anni ed era stato utilizzato esclusivamente per il trasporto merci; pochi mesi prima era rimasto fermo sei settimane per riparare una crepa nel serbatoio e corrosioni strutturali. Il modello MD‑11 ha alle spalle una lunga carriera con diversi incidenti, benché sia progettato per volare anche con un motore fuori servizio.L’approccio scientifico alla dinamica del disastroNei giorni successivi al disastro, un team di divulgatori e un pilota di linea ha realizzato una ricostruzione tridimensionale dettagliata dell’accaduto. Il progetto, che unisce animazione 3D e dati reali, mira a spiegare in maniera comprensibile perché un aereo trimotore non sia riuscito a proseguire il volo nonostante l’avaria a un solo motore. La simulazione si basa sulle immagini riprese dai testimoni, sui dati di tracciamento del volo e sulle prime analisi delle autorità e ricostruisce ogni fase: dall’abbordaggio alla pista alla corsa di decollo, fino alla perdita del propulsore e allo schianto. Il punto cruciale mostrato dalla ricostruzione è il distacco del motore sinistro durante la corsa di decollo, seguito da un’esplosione e da un forte incendio sulla semiala. Il velivolo, avendo già superato la velocità di decisione V1 – valore oltre il quale l’interruzione del decollo diventa più pericolosa che continuare – prosegue la manovra e si solleva da terra. In aviazione, questo è lo scenario previsto: gli aeroplani sono progettati per poter decollare e salire con un propulsore fuori uso. La simulazione sottolinea però che il distacco del motore non solo ha privato l’MD‑11 di una spinta, ma ha anche spezzato tubazioni di carburante e cablaggi, alimentando un incendio che ha compromesso superfici di controllo e sistemi idraulici. Testimonianze e video mostrano infatti fiamme provenire anche dal motore di coda, suggerendo che detriti della turbina sinistra possano aver danneggiato ulteriori componenti. Il modello tridimensionale evidenzia come, dopo aver raggiunto un’altezza modesta, l’aereo abbia iniziato a rollare verso sinistra, perdendo portanza fino ad impattare contro un deposito di ricambi auto e una struttura di riciclaggio del petrolio.Le domande tecniche e il lavoro degli investigatoriL’analisi in 3D approfondisce anche il concetto di V1, la velocità oltre la quale i piloti non possono più arrestare in sicurezza l’aereo sulla pista. In fase di decollo, questo valore rappresenta un punto di non ritorno: anche se si verifica un’avaria grave, la procedura impone di continuare il decollo e affrontare l’emergenza in volo. Il pilota intervistato nella ricostruzione spiega che eventuali microfratture nei supporti del motore, errori di manutenzione o l’ingestione di corpi estranei potrebbero causare un distacco improvviso della turbina. In passato, incidenti come l’American Airlines 191 del 1979 hanno dimostrato quanto sia cruciale l’integrità dei sistemi di aggancio dei motori e delle superfici di controllo; dopo quel disastro furono introdotti rinforzi e valvole di sicurezza, ma l’incidente in Kentucky suggerisce che le vulnerabilità non siano del tutto eliminate.Le immagini tridimensionali non rappresentano un verdetto definitivo: la ricostruzione ha un obiettivo divulgativo e non sostituisce l’inchiesta ufficiale. Gli investigatori del National Transportation Safety Board (NTSB) stanno analizzando i registratori di volo recuperati, i frammenti delle pale del motore e il pylon rimasto sulla pista, per determinare se vi siano state difettosità di progetto, errori di manutenzione o cause esterne. Oltre ventotto tecnici sono sul campo e hanno mappato un’area di detriti lunga quasi un chilometro. L’indagine comprenderà l’esame dei recenti interventi di manutenzione sull’aereo e dei materiali impiegati; i risultati definitivi richiederanno mesi di lavoro.Implicazioni e riflessioniL’evento ha aperto un dibattito sulla gestione dei velivoli anziani e sulla sicurezza delle rotte cargo. Pur rappresentando una quota ridotta delle flotte globali, gli MD‑11 ricoprono un ruolo cruciale nella logistica internazionale. L’incidente di Louisville potrebbe accelerare la sostituzione di questi aerei con modelli più moderni e spingere le autorità a rafforzare i controlli sulle ispezioni strutturali. La ricostruzione tridimensionale offre al pubblico un raro sguardo tecnico sull’evoluzione di una catastrofe aerea; mostra come una catena di eventi – un motore che si stacca, un incendio che compromette i sistemi, la necessità di proseguire il decollo oltre V1 – possa portare in pochi secondi a un esito tragico. Mentre la comunità di Louisville piange le vittime e le famiglie colpite, la speranza è che l’analisi scientifica e l’indagine ufficiale conducano a miglioramenti nelle procedure e nella progettazione, prevenendo catastrofi simili in futuro.
Il crollo della Torre Conti
Il 3 novembre 2025 una delle torri più antiche della Capitale è tornata alla ribalta per un dramma inatteso. Intorno alle 11.20, durante i lavori di consolidamento finanziati con i fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), una porzione della Torre dei Conti, a Largo Corrado Ricci, è crollata improvvisamente. In questa fase del cantiere, che avrebbe dovuto restituire il monumento al pubblico entro l’estate 2026, il contrafforte centrale del lato meridionale è ceduto, trascinando giù il basamento «a scarpa» sottostante e una parte della muratura. Circa un’ora e mezza dopo, alle 13.00, mentre i soccorritori erano già al lavoro, un secondo cedimento ha interessato parte del vano scala e il solaio di copertura, sollevando una nube di polvere e calcinacci che ha rallentato le operazioni di soccorso.Gli eventi del 3 novembreNel cantiere, oltre alla ditta capofila, operavano alcune imprese specializzate in restauri (EdilErica e Picalarga). Cinque operai stavano lavorando all’interno. Quattro di loro sono riusciti a mettersi in salvo con l’aiuto dei vigili del fuoco; Octay Stroici, sessantaseienne romeno, è rimasto intrappolato sotto le macerie per undici ore. I vigili del fuoco hanno stabilito un contatto con lui, gli hanno fornito ossigeno e hanno lavorato con squadre specializzate in emergenze urbane, ma l’uomo è deceduto poco dopo essere stato estratto e trasferito all’ospedale Umberto I. Un altro operaio di 64 anni, ricoverato con trauma cranico, è stato dimesso con prognosi di otto giorni.L’area è stata immediatamente evacuata; via Cavour, i Fori Imperiali e le strade limitrofe sono state chiuse al traffico. Sul posto sono accorsi il sindaco Roberto Gualtieri, il ministro della Cultura Alessandro Giuli e il prefetto Lamberto Giannini, che hanno parlato di "intervento delicato" e hanno incontrato gli operai superstiti. La premier Giorgia Meloni ha espresso cordoglio via social. Nel frattempo, la procura di Roma ha aperto un’indagine per disastro colposo e omicidio colposo; i carabinieri hanno sequestrato il cantiere, ascoltato i lavoratori e i responsabili delle imprese e stanno verificando se le norme di sicurezza siano state rispettate.La torre e il progetto di restauroLa Torre dei Conti è uno dei pochi esempi sopravvissuti delle case-torri della Roma medievale. L’attuale struttura risale all’XI secolo e fu ampliata nel 1203 da papa Innocenzo III per la sua famiglia: in origine superava i 50 metri, ma i terremoti del 1348, 1630 e 1644 e gli sventramenti ottocenteschi l’hanno ridotta agli attuali 29 metri. Nel 1644 un crollo provocò la morte di due persone; dopo secoli di abbandono la torre fu utilizzata come fienile, deposito di carbone e, durante il fascismo, come mausoleo degli Arditi.Il monumento era chiuso dal 2007, quando furono sgomberati gli uffici che lo occupavano. Solo nel 2025, grazie a un finanziamento di 6,9 milioni di euro del Pnrr («Caput Mundi»), era stato avviato un intervento di recupero che comprendeva il consolidamento statico, il restauro conservativo, l’installazione di impianti moderni, l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’allestimento museale. La sovrintendenza capitolina spiegava che il primo stralcio dei lavori, avviato a giugno 2025 e quasi concluso (circa 400 mila euro), riguardava la bonifica dall’amianto e le opere preliminari; prove di carico e carotaggi avevano certificato la stabilità del monumento. L’obiettivo era trasformare la torre in museo dedicato alle fasi più recenti dei Fori Imperiali, con un centro servizi e una sala conferenze.Indagini e prospettiveDopo il doppio crollo, l’intero cantiere è stato posto sotto sequestro. I tecnici della Sovrintendenza e della protezione civile hanno verificato che la torre è pericolante; la priorità è mettere in sicurezza la struttura e l’area circostante per consentire l’accesso degli esperti. In Prefettura si è ipotizzata perfino la demolizione e la ricostruzione fedele della torre per salvare l’opera e tutelare l’incolumità pubblica. Nel frattempo è stato disposto il monitoraggio continuo della stabilità e l’installazione di sensori.Le indagini della procura si concentrano sul rispetto delle norme antinfortunistiche e sui motivi del cedimento. Le ipotesi più accreditate parlano di un cedimento strutturale in una zona già degradata, forse aggravato dalle vibrazioni delle lavorazioni o da un cedimento dei ponteggi. Le società appaltatrici e i funzionari della Sovrintendenza saranno ascoltati per chiarire se la fase dei lavori fosse compatibile con la presenza degli operai e se fossero state adottate tutte le misure di protezione.Il punto finoraA oltre una settimana dall’incidente, la Torre dei Conti resta un simbolo ferito. Le operazioni di messa in sicurezza proseguono, il traffico attorno ai Fori Imperiali è ancora deviato e alcune attività commerciali della zona hanno chiuso per precauzione. Gli operai feriti sono stati dimessi, mentre la famiglia di Octay Stroici attende risposte. Il progetto Pnrr, che doveva restituire la torre ai cittadini, è sospeso in attesa delle perizie. La comunità scientifica e la cittadinanza chiedono che le indagini siano rapide e trasparenti e che, qualsiasi sia la soluzione – consolidamento o ricostruzione – sia tutelata l’integrità di un monumento che da secoli veglia sui Fori Imperiali.
Perché 14 miliardi?
L’Universo ha un’età di circa 13,8 miliardi di anni: un tempo incomprensibilmente lungo che racchiude una sequenza di processi fisici, chimici e biologici culminati nella comparsa della nostra specie. Parlare di «14 miliardi di anni per cucinare noi» non è un modo di dire: il viaggio dalla nascita del cosmo fino a un essere capace di interrogarsi sulle proprie origini è stato scandito da tappe precise e necessarie, tutte documentate dalla ricerca scientifica.Subito dopo il Big Bang l’Universo era una distesa incandescente di energia; nel giro di pochi minuti si formarono i primi nuclei di idrogeno ed elio. Nei primi 380 000 anni la materia era tanto densa e calda che la luce non poteva propagarsi liberamente, fino a quando l’espansione e il raffreddamento permisero alla radiazione di scorrere nello spazio. All’epoca non esistevano pianeti né elementi più pesanti: i «mattoni» della vita ancora non si erano formati. Ci vollero centinaia di milioni di anni prima che l’attrazione gravitazionale condensasse le prime nubi di gas in stelle e galassie. La loro nascita segnò l’inizio della cosiddetta nucleosintesi stellare: nel nucleo delle stelle massive venivano creati elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio, come carbonio, ossigeno e ferro, che venivano poi liberati nell’ambiente attraverso l’esplosione delle supernove. Solo dopo questo arricchimento chimico fu possibile formare pianeti rocciosi e molecole complesse.La nostra galassia, la Via Lattea, si è formata circa dieci miliardi di anni fa in un’epoca in cui le galassie a spirale stavano nascendo in gran numero e il tasso di formazione stellare era molto alto. Nel cuore di nubi di gas e polveri ricche di metalli prodotti da generazioni precedenti di stelle, circa 4,6 miliardi di anni fa si è acceso il Sole. La sua stabilità è stata una condizione fondamentale per lo sviluppo della vita: è una stella di massa intermedia che brucia l’idrogeno lentamente, garantendo miliardi di anni di luce regolare. Intorno a essa, dal disco di gas e polveri, si aggregarono protopianeti; uno di essi, la Terra, vide la propria superficie ripulita da un intenso bombardamento di asteroidi e comete. La formazione di oceani e l’apparire di una crosta stabile crearono un ambiente favorevole alla chimica prebiotica. Le prime tracce di vita risalgono ad almeno 3,7 miliardi di anni fa e potrebbero essersi sviluppate poco dopo che il nostro pianeta diventò abitabile.A partire da organismi unicellulari si dispiegò una lunga storia evolutiva. La fotosintesi ossigenica iniziò circa 2,1 miliardi di anni fa, trasformando l’atmosfera e aprendo la strada alla vita pluricellulare. Nei successivi centinaia di milioni di anni si diversificarono alghe, invertebrati, pesci, anfibi e rettili, spesso accompagnati da estinzioni di massa provocate da cambiamenti climatici, impatti cosmici e supernove. I mammiferi dominarono la scena dopo l’estinzione dei dinosauri, ma gli ominini emersero solo qualche milione di anni fa. La nostra specie, Homo sapiens, è comparsa in Africa fra 300 000 e 250 000 anni fa ed è riuscita a diffondersi in tutto il mondo soltanto negli ultimi 50 000 anni, integrandosi e sostituendo altre specie umane con cui ha convissuto.Il motivo per cui siamo apparsi così tardi rispetto all’età dell’Universo è legato a una finestra temporale precisa. Gli astrofisici parlano di «finestra cosmologica» per indicare l’intervallo, grosso modo compreso tra due e venti miliardi di anni dopo il Big Bang, in cui si verificano contemporaneamente tre condizioni: la presenza di molti elementi pesanti, la formazione di stelle simili al Sole e la relativa stabilità degli ambienti stellari. Nei primi miliardi di anni mancavano gli elementi necessari; in futuro, invece, il tasso di nascita delle stelle è destinato a calare drasticamente e la maggior parte degli astri saranno nane rosse irregolari che, pur vivendo a lungo, rendono improbabile l’evoluzione di forme di vita complesse. Sia il nostro Sole sia l’Universo stesso stanno quindi attraversando un periodo di «fertilità» irripetibile, destinato a finire. La finestra resterà aperta per ancora qualche miliardo di anni prima che la disponibilità di gas e polveri si esaurisca e la vita complessa diventi un’eccezione.Siamo dunque il frutto di un processo cosmico lungo e delicato, non il risultato casuale di un istante. L’Universo ha impiegato quasi tutta la sua storia per generare gli elementi, i pianeti e le condizioni ambientali che consentissero l’evoluzione di una coscienza capace di interrogarsi sul proprio posto nel cosmo. Comprendere questa storia ci ricorda quanto sia fragile la nostra presenza e quanto sia preziosa la finestra temporale in cui ci troviamo.
Gas o induzione: test consumi
Nel dibattito sulle migliori soluzioni per cucinare, la domanda che ricorre più spesso è: quanto consumano davvero un piano a induzione e uno a gas? Nell’ultimo anno, con prezzi dell’energia instabili e la transizione ecologica che incoraggia l’elettrificazione, sempre più famiglie si chiedono se sia arrivato il momento di abbandonare il fornello tradizionale. Per scoprirlo abbiamo confrontato le due tecnologie con dati aggiornati e un test pratico, cercando di comprendere non solo i consumi ma anche i costi, la rapidità di cottura, l’impatto ambientale e le implicazioni pratiche per l’uso domestico.Il test: due litri d’acqua a bollirePer avere un riscontro concreto abbiamo riprodotto in laboratorio uno dei test utilizzati dai produttori per certificare i consumi: portare a ebollizione due litri d’acqua in pentole identiche. Il piano a induzione si è rivelato nettamente più rapido, impiegando poco meno di cinque minuti (4 minuti e 53 secondi) per portare l’acqua a 100 °C, mentre il piano a gas ha richiesto oltre undici minuti (11 minuti e 16 secondi). Il vantaggio temporale è dovuto al principio di funzionamento: l’induzione genera calore direttamente nel fondo della pentola tramite un campo magnetico, riducendo la dispersione termica; il gas, al contrario, riscalda prima la fiamma e poi il recipiente, disperdendo parte dell’energia nell’aria circostante.In termini di energia assorbita, il piano a induzione ha consumato circa 0,23 kWh, mentre il fornello a gas ha bruciato 0,07 metri cubi di gas. Considerando che uno standard metro cubo (Smc) di gas metano contiene circa 10,7 kWh di energia, quei 0,07 Smc corrispondono a più di 0,7 kWh. L’efficienza più elevata dell’induzione spiega quindi perché, pur utilizzando energia elettrica più costosa del gas a parità di unità, il consumo totale risulti inferiore.Consumi e costiIl confronto dei consumi deve essere tradotto in costi per avere un significato concreto. A novembre 2025, nel servizio di tutela della vulnerabilità il costo dell’elettricità per i clienti domestici vulnerabili è di circa 0,2875 €/kWh tasse incluse, mentre il prezzo del gas, sempre in regime tutelato, ammonta a 1,0525 €/Smc (circa 0,4406 €/kWh per la materia prima più oneri e imposte). Applicando questi valori ai consumi misurati:- il piano a induzione, con 0,23 kWh, costa circa 6,6 centesimi,- il piano a gas, con 0,07 Smc, costa circa 7,4 centesimi.Se si confrontano soltanto i prezzi della materia prima (circa 0,3537 €/Smc per il gas), il fornello a gas risulta leggermente più economico; tuttavia, tenendo conto di trasporto, oneri di sistema e imposte, il costo complessivo tende a superare quello dell’energia elettrica. Il risultato del test è dunque sorprendente: malgrado l’elettricità resti più costosa del gas per kWh, il piano a induzione consuma meno energia e può risultare più conveniente in bolletta. È un vantaggio che può ampliarsi o ridursi a seconda del proprio contratto di fornitura: nel mercato libero alcune offerte gas a prezzo basso rendono ancora competitivo il piano tradizionale, mentre tariffe elettriche vantaggiose accentuano il vantaggio dell’induzione.Efficienza e rapiditàL’efficienza dell’induzione supera il 90 %, perché il campo magnetico riscalda esclusivamente il fondo ferromagnetico della pentola; i fornelli a gas hanno un rendimento ben più basso (intorno al 40–60 %) e molta energia si perde sotto forma di calore disperso. Questa differenza si riflette non solo nel consumo, ma anche nella velocità: il test sulla bollitura mostra che l’induzione quasi dimezza i tempi. È un aspetto apprezzato da chi cucina quotidianamente, perché permette di risparmiare minuti preziosi e di mantenere la cucina più fresca.Per ottenere questi risultati è necessario però disporre di pentole con fondo magnetico; l’acciaio inox è generalmente compatibile, mentre alluminio, rame, ceramica e vetro non funzionano. L’induzione richiede inoltre una potenza elettrica disponibile più elevata: la maggior parte dei piani in commercio ha una potenza di punta di 7,4 kW e chi possiede un contratto domestico standard da 3 kW deve impostare un limitatore di potenza oppure chiedere al gestore l’aumento a 4,5 o 6 kW, con conseguente incremento dei costi fissi. Fortunatamente molti modelli offrono un limitatore regolabile che consente di utilizzare l’induzione senza superare la potenza contrattuale, anche se in questo caso non si può sfruttare il massimo della rapidità.Impatto ambientale e saluteScegliere tra induzione e gas non è solo una questione di costi. Numerosi studi evidenziano che i fornelli a gas emettono ossidi di azoto (NO₂) e altre sostanze che peggiorano la qualità dell’aria domestica. In un programma di monitoraggio su venti abitazioni del Bronx, negli Stati Uniti, la sostituzione dei fornelli a gas con quelli a induzione ha portato a una riduzione del 56 % dell’NO₂ presente in cucina; durante la cottura, le cucine a gas hanno raggiunto concentrazioni medie di 197 ppb, mentre quelle a induzione sono rimaste vicine ai livelli di fondo. L’esposizione prolungata agli ossidi di azoto è correlata a problemi respiratori e a un maggior rischio di asma nei bambini. Oltre alle emissioni indoor, il gas metano ha un forte impatto climatico: a parità di peso è circa 80 volte più dannoso della CO₂ nel trattenere il calore atmosferico nei primi vent’anni; l’induzione, alimentata da elettricità, permette di ridurre questo contributo se l’energia proviene da fonti rinnovabili.Sul fronte della sicurezza, i piani a induzione eliminano il rischio di fughe di gas e si spengono automaticamente se la pentola viene rimossa. La superficie in vetroceramica rimane relativamente fredda, riducendo le probabilità di ustioni accidentali e rendendo la pulizia più semplice. Anche il rumore è migliorato rispetto alle prime generazioni; alcuni modelli possono produrre un sibilo a potenza elevata, ma è generalmente contenuto.Costi di acquisto e mercatoUn elemento da non trascurare è il prezzo di acquisto. Secondo un’analisi di mercato condotta su modelli in commercio tra il 2023 e il 2025, il costo medio di un piano a induzione è di circa 675 euro, quasi il doppio rispetto ai 320 euro necessari per un piano a gas. Questa differenza iniziale resta uno dei principali ostacoli alla diffusione della tecnologia, soprattutto nelle ristrutturazioni. Nonostante ciò, l’induzione guadagna quota: oggi rappresenta circa il 36 % delle vendite di piani cottura in Italia e cresce del 2,8 % annuo, mentre i piani a gas, ancora la maggioranza con il 63 %, mostrano un leggero calo (–1,8 %). La diffusione del fotovoltaico domestico, degli accumuli e delle pompe di calore spinge ulteriormente verso la scelta elettrica.Chi decide di acquistare un piano a induzione deve considerare anche i costi di adeguamento dell’impianto elettrico, l’eventuale sostituzione del set di pentole e la verifica della compatibilità con l’impianto domestico. Per chi vive in un appartamento con contatore limitato o senza possibilità di aumentare la potenza, il gas rimane una soluzione più semplice da implementare.ConclusioniIl nostro test dimostra che il piano a induzione consuma meno energia e, con le tariffe attuali, può costare meno del piano a gas, soprattutto se si considerano le spese totali in bolletta e non solo la materia prima. L’induzione offre inoltre tempi di cottura più rapidi, maggiore efficienza, migliore qualità dell’aria in casa e maggiore sicurezza. D’altro canto, il costo iniziale più elevato e la necessità di adeguare l’impianto elettrico possono rappresentare barriere importanti.La scelta finale dipende da vari fattori: il tipo di contratto energetico, la presenza o meno di un impianto fotovoltaico, il budget disponibile per l’acquisto e l’installazione e le esigenze personali di chi cucina. Con l’aumento dei costi del gas, la diffusione delle rinnovabili e l’attenzione crescente alla salute indoor, l’induzione appare sempre più competitiva, ma il mercato offre ancora soluzioni valide per chi preferisce il gas.
Schema Ponzi: Guadagni facili
Lo schema Ponzi è una delle frodi finanziarie più longeve e ingannevoli del mondo. Il nome deriva dal finanziere italiano Charles Ponzi, che nel 1920 raccolse milioni di dollari promettendo un rendimento del 50 % in 45 giorni sfruttando un supposto arbitraggio sui buoni di risposta internazionale. In realtà non comprava né rivendeva buoni, ma utilizzava i capitali dei nuovi aderenti per pagare gli interessi a quelli precedenti. La catena crollò quando alcuni giornalisti scoprivano che i profitti non provenivano da attività reali, provocando il panico e il ritiro dei fondi.Oggi lo schema Ponzi continua a mietere vittime in tutto il mondo, alimentato dalla ricerca di guadagni facili senza rischi e dalla diffusione di canali digitali. Gli investitori sono attratti da offerte di ritorni elevati e garantiti, spesso sostenute da testimonial famosi o da un’apparente rispettabilità. In realtà si tratta di un sistema che non produce utili e che si regge esclusivamente sull’afflusso di nuovi fondi.Come funziona la truffaAlla base dello schema Ponzi ci sono quattro fasi ricorrenti:- Promesse di rendimenti elevati e sicuri: i truffatori propongono investimenti con profitti molto superiori a quelli di mercato, presentandoli come opportunità senza rischi. Questa leva psicologica è la prima trappola.- Restituzione ai primi investitori: per creare fiducia, i primi partecipanti ricevono realmente gli interessi promessi. Questi soldi, tuttavia, provengono semplicemente dai versamenti dei nuovi aderenti.- Passaparola e reclutamento: vedendo i primi guadagni, sempre più persone vengono convinte a investire, spesso invitando amici e parenti. La crescita della base di investitori diventa l’unica sorgente di liquidità.- Crollo del sistema: quando i nuovi ingressi non sono più sufficienti a sostenere i pagamenti o troppe persone chiedono il rimborso, la catena si spezza. Non essendoci investimenti reali, la maggior parte dei partecipanti rimane con perdite totali.- Le caratteristiche principali sono facilmente riconoscibili: rendimenti costanti e fuori mercato, mancanza di trasparenza sulle attività svolte, pressioni a reclutare altri investitori e difficoltà nel recuperare i propri soldi. Una regola d’oro della finanza è che non esistono guadagni senza rischi: più alto è il rendimento promesso, più alto è il rischio, e nessun operatore serio garantisce profitti elevati in tempi brevi.Le nuove frontiere digitaliNegli ultimi anni lo schema Ponzi ha trovato terreno fertile nel mondo digitale. Molte truffe utilizzano piattaforme di investimento online, wallet di criptovalute o programmi di “cloud mining”, apparentemente innovativi ma privi di qualsiasi attività produttiva. Gli schemi digitali seguono lo stesso copione: promettono rendimenti straordinari, pagano i primi aderenti con i soldi dei nuovi, incoraggiano a portare altri investitori e crollano quando si interrompe il flusso di denaro. Nel caso della piattaforma “8 Hours Mining”, ad esempio, gli utenti venivano attirati con titoli che parlavano di profitti quotidiani superiori a settemila dollari; l’analisi del sito ha evidenziato la totale assenza di infrastrutture di mining, mentre la messaggistica interna offriva bonus per chi portava nuovi membri e garantiva “sicurezza assicurata” senza fornire documenti o certificazioni.Le criptovalute sono diventate uno strumento privilegiato per queste frodi. Nel 2024, il promotore Juan Tacuri è stato condannato a 20 anni di carcere per aver partecipato allo schema Forcount (in seguito chiamato Weltsys), una falsa società di mining e trading di criptovalute. Gli investitori, soprattutto di lingua spagnola, erano convinti che i profitti derivassero da attività di trading; in realtà i fondi venivano usati per pagare altri investitori e per finanziare spese personali. I promotori promettevano la duplicazione degli investimenti in sei mesi, ma la piattaforma non permetteva di prelevare i fondi e vendeva token senza valore.La digitalizzazione facilita anche il reperimento delle vittime: secondo studi recenti, i truffatori contattano sempre più spesso le vittime attraverso social network, siti web e app, combinando queste piattaforme con l’intelligenza artificiale per rendere le truffe più credibili. Le nuove modalità di pagamento, come le criptovalute e le app di pagamento istantaneo, riducono la possibilità di recuperare il denaro una volta trasferito.Casi recenti e clamorosiNext Level e Yield Term Deposits (Stati Uniti, 2024 – 2025) – L’imprenditore Nicholas Regan e i suoi soci offrivano titoli e depositi che promettevano utili derivanti da attività nel settore dei metalli preziosi e da investimenti collegati all’Affordable Care Act. Le loro proposte includevano anche presunte garanzie assicurative. In realtà, l’azienda non realizzava investimenti significativi; i proventi venivano pagati con i fondi dei nuovi investitori, mentre i promotori falsificavano polizze assicurative e utilizzavano parte del denaro per spese personali. La chiusura delle società nel novembre 2024 ha lasciato perdite superiori a 50 milioni di dollari.First Liberty Building & Loan (Georgia, 2025) – La Securities and Exchange Commission ha denunciato la società e il suo fondatore, Edwin Brant Frost IV, per aver orchestrato un’offerta fraudolenta da 140 milioni di dollari. La società vendeva note promissorie con interessi annuali dall’8 % al 18 % finanziando presunti prestiti a breve termine. Secondo la denuncia, dal 2021 Frost utilizzava i capitali dei nuovi sottoscrittori per pagare gli interessi ai vecchi e per coprire spese personali, inclusi acquisti di monete rare, carte di credito e donazioni politiche.Forcount/Weltsys (America Latina – Stati Uniti, 2018–2021) – Presentato come un programma di mining e trading di criptovalute, prometteva guadagni giornalieri garantiti e la possibilità di raddoppiare l’investimento in pochi mesi. In realtà non veniva effettuata alcuna attività di mining: i fondi dei nuovi investitori venivano usati per pagare i precedenti e per acquistare immobili e beni di lusso. Quando i partecipanti hanno cercato di ritirare il denaro, la piattaforma ha bloccato i conti e ha offerto token privi di valore.Quadriga CX (Canada, 2018) – L’exchange di criptovalute accumulò circa 200 milioni di dollari canadesi promettendo rendimenti elevati. Il fondatore Gerald Cotten custodiva da solo le chiavi dei portafogli e depositava i fondi su conti personali. Dopo la sua morte improvvisa, gli investitori scoprirono che non esistevano i fondi dichiarati e che l’azienda aveva operato come uno schema Ponzi.Massimo Bochicchio (Italia, 2010–2022) – Il finanziere romano, soprannominato il “Madoff dei Parioli”, gestiva una rete di investimenti offshore tramite società con sede a Londra, Hong Kong e Panama. Prometteva rendimenti elevati a clienti facoltosi del mondo dello sport e dell’imprenditoria. Secondo le indagini, avrebbe frodato VIP come Antonio Conte e Marcello Lippi per circa 600 milioni di euro. I fondi transitavano tramite conti presso una banca londinese e venivano convogliati in veicoli offshore. Bochicchio è morto in un incidente nel 2022 mentre era ai domiciliari in attesa di processo.Bernard Madoff (Stati Uniti, 1990–2008) – È considerato il più grande schema Ponzi della storia. Madoff, ex presidente del Nasdaq, promise rendimenti costanti e utilizzo di sofisticate strategie di trading. In realtà pagava gli interessi con i capitali dei nuovi investitori e dirottava i fondi in conti segreti. Il valore della frode è stato stimato in oltre 60 miliardi di dollari.Questi casi dimostrano che lo schema Ponzi può assumere forme diverse: dagli investimenti in metalli preziosi alle criptovalute, dai programmi pensionistici alle iniziative benefiche. La costante è sempre la stessa: rendimenti attraenti, assenza di rischi apparenti e mancanza di reali attività economiche.Come difendersiPer proteggersi da una truffa Ponzi occorre innanzitutto diffidare di chi promette guadagni elevati e garantiti. È importante verificare che l’intermediario sia autorizzato dall’autorità di vigilanza (in Italia la Consob) e che le attività proposte siano comprensibili e documentate. Tra i segnali di allarme figurano:- Rendimenti troppo alti e garantiti: nessun investimento legittimo assicura guadagni elevati senza rischi.- Assenza di trasparenza: se non viene spiegato chiaramente come sono generati i profitti o dove vengono investiti i fondi, è probabile che si tratti di una frode.- Difficoltà a ritirare i soldi: ritardi nei pagamenti, richieste di nuove adesioni o costi inattesi sono segnali di allarme.- Pressione a reclutare altri investitori: la necessità di ampliare continuamente la base di partecipanti è tipica di uno schema piramidale.- Uso di strumenti poco tracciabili: pagamenti in criptovalute, piattaforme non regolamentate o sistemi di “cloud mining” sono spesso impiegati per rendere più difficile il recupero dei fondi.La prevenzione passa anche attraverso l’educazione finanziaria. Organismi di vigilanza e istituzioni pubbliche producono campagne informative per mettere in guardia i risparmiatori: nel 2025, per esempio, l’autorità di vigilanza italiana ha diffuso un video definendo lo schema Ponzi “la madre di tutte le truffe finanziarie” e invitando i cittadini a non cedere all’«effetto gregge». Inoltre, le autorità statunitensi continuano a perseguire penalmente i responsabili: nel caso Forcount il promotore è stato condannato a 20 anni di reclusione, mentre i gestori di Next Level e Yield sono stati incriminati per frode e reati finanziari.La prevenzione passa anche attraverso l’educazione finanziaria. Organismi di vigilanza e istituzioni pubbliche producono campagne informative per mettere in guardia i risparmiatori: nel 2025, per esempio, l’autorità di vigilanza italiana ha diffuso un video definendo lo schema Ponzi “la madre di tutte le truffe finanziarie” e invitando i cittadini a non cedere all’«effetto gregge». Inoltre, le autorità statunitensi continuano a perseguire penalmente i responsabili: nel caso Forcount il promotore è stato condannato a 20 anni di reclusione, mentre i gestori di Next Level e Yield sono stati incriminati per frode e reati finanziari.ConclusioneLo schema Ponzi sopravvive da oltre un secolo perché sfrutta la psicologia umana: il desiderio di arricchirsi rapidamente e la fiducia riposta in chi offre rendimenti impossibili. Con l’avvento delle criptovalute e dei social network, queste truffe si sono evolute, ma il principio resta invariato. Non esistono guadagni facili senza rischi: ogni investimento richiede analisi, tempo e consapevolezza. Per non cadere nella rete dei truffatori occorrono informazione, diffidenza verso le offerte troppo allettanti e rispetto delle regole. Le vicende più recenti dimostrano che, nonostante le dimensioni variabili e la tecnologia impiegata, alla fine la piramide crolla sempre lasciando sul campo migliaia di vittime e danni economici enormi.
3i/atlas: Una cometa Naturale
All’inizio di luglio 2025 un telescopio del sistema ATLAS (Asteroid Terrestrial‑impact Last Alert System) in Cile registrò un puntino sfocato che si muoveva più velocemente delle normali comete. Dopo un controllo delle immagini ottenute in precedenza – alcune risalenti al 14 giugno – gli astronomi compresero di avere di fronte il terzo oggetto interstellare mai osservato: la cometa 3I/ATLAS. La sigla “3I” indica che si tratta del terzo corpo proveniente da un altro sistema stellare, mentre il nome “ATLAS” rende omaggio alla rete di telescopi che l’ha individuato. A differenza dei corpi legati al Sistema solare, la sua orbita è fortemente iperbolica, cioè non chiusa: questo percorso aperto e la sua elevata velocità, già superiore a 137 000 miglia orarie al momento della scoperta, dimostrano che non tornerà mai più.Gli astronomi hanno seguito 3I/ATLAS con ogni strumento disponibile. Durante la sua rapida cavalcata verso il Sole, il nucleo ghiacciato della cometa – probabilmente grande da poche centinaia di metri a qualche chilometro – ha iniziato a rilasciare gas e polveri formando la chioma e la coda. La fotocamera ad alta risoluzione del Mars Reconnaissance Orbiter ha ripreso l’oggetto quando passava a circa 19 milioni di chilometri da Marte, mentre le sonde Lucy e Psyche, in viaggio verso gli asteroidi, l’hanno fotografato da altre angolazioni. Anche il rover Perseverance, le missioni MAVEN e PUNCH e i telescopi spaziali Hubble e James Webb hanno puntato i loro strumenti per catturare immagini e spettroscopie del visitatore. La raccolta di dati da diverse posizioni ha permesso di ricostruire la traiettoria e di studiare la composizione della chioma.Un corpo proveniente da lontano, non un’astronaveFin dalle prime notizie, 3I/ATLAS è diventata protagonista di indiscrezioni e ipotesi fantasiose. Il fatto che si trattasse di un oggetto interstellare e che nelle prime osservazioni mostrasse una chioma debole alimentò teorie sensazionalistiche secondo cui sarebbe potuto trattarsi di un veicolo artificiale. Un ricercatore noto per le sue speculazioni su precedenti visitatori interstellari elencò dodici “anomalie” della cometa, citando ad esempio l’allineamento quasi perfetto della sua traiettoria con il piano dell’eclittica, la presenza di getti rivolti verso il Sole (detti anticode) e la composizione chimica insolita. Lo stesso studioso sottolineò la massa molto più grande rispetto agli oggetti interstellari osservati in passato, la forte predominanza di nichel rispetto al ferro e il basso contenuto d’acqua, arrivando a ipotizzare che queste caratteristiche potessero essere compatibili con un manufatto di origine non naturale.La comunità scientifica, però, ha risposto con fermezza alle voci di un’astronave. I responsabili della missione hanno chiarito che la cometa si comporta come una cometa: possiede un nucleo solido che sublima quando si avvicina al Sole, sviluppando una chioma e una coda di gas e polveri. Le anticode e le code multiple osservate da molti astrofili sono fenomeni noti: la superficie di un nucleo in rotazione espelle particelle più grandi verso il Sole e queste, colpite dalla radiazione solare, vengono poi spinte all’indietro, creando la sensazione di una coda rivolta nella direzione sbagliata. Gli astronomi hanno misurato quantità elevate di anidride carbonica, insieme a acqua, monossido di carbonio e cianuro, e hanno rilevato anche vapori di nichel. Sebbene il rapporto nichel/ferro e la proporzione di acqua siano diversi rispetto a molte comete del Sistema solare, questi valori rientrano nella vasta gamma di composizioni possibili per un oggetto nato in un altro sistema stellare.Durante una conferenza stampa organizzata il 19 novembre 2025, i responsabili dell’ente spaziale statunitense hanno presentato le immagini più dettagliate finora ottenute e hanno affrontato apertamente le “voci” circolate nei mesi precedenti. Hanno sottolineato che non è stata rilevata alcuna traccia di tecnologia o segnali artificiali, né “tecnosegnature” che possano far pensare a una navicella. La cometa non mostra propulsione autonoma né strutture riconoscibili; tutti i fenomeni osservati – comprese le variazioni di luminosità e la presenza di più getti – possono essere spiegati con processi fisici di sublimazione del ghiaccio e con la rotazione irregolare del nucleo. La comunità astronomica ha quindi applicato il rasoio di Occam: tra l’ipotesi di un oggetto naturale e quella, molto più complicata, di un veicolo alieno, la spiegazione più semplice rimane la più probabile.Orbita, dimensioni e velocitàLa traiettoria di 3I/ATLAS è altamente inclinata e la sua velocità ne attesta l’origine remota. Gli astronomi hanno calcolato che il punto più vicino al Sole (perielio) è avvenuto il 30 ottobre 2025 a circa 1,4 unità astronomiche dal Sole (circa 210 milioni di chilometri). Poche settimane più tardi, il 19 dicembre, l’oggetto raggiunge il punto di massima vicinanza alla Terra, rimanendo comunque a circa 1,8 unità astronomiche (circa 270 milioni di chilometri), quindi più lontano della distanza media che separa il nostro pianeta dal Sole. Non c’è alcun rischio di impatto: dopo aver attraversato il piano delle orbite dei pianeti, la cometa proseguirà verso il sistema esterno e poi tornerà nello spazio interstellare, senza più tornare nei nostri cieli.Le osservazioni radar e i limiti imposti dalle immagini del telescopio Hubble suggeriscono che il nucleo ha un diametro compreso tra circa 440 metri e 5,6 chilometri. Un responsabile della missione ha spiegato che, se il nucleo fosse molto più grande, si vedrebbe un picco di luminosità al centro della chioma, cosa che non è stata osservata. La forma irregolare e la rotazione possono spiegare le variazioni di luminosità e l’apparente “multi‑coda”.Dal punto di vista cinetico, 3I/ATLAS è uno degli oggetti naturali più veloci mai misurati. Subito dopo la scoperta si muoveva a circa 220 000 chilometri all’ora; la velocità è aumentata mentre si avvicinava al Sole, raggiungendo quasi 246 000 chilometri all’ora al perielio. Questa rapidità rende difficile l’osservazione: per catturare immagini nitide le camere devono inseguire la cometa, causando l’allungamento delle stelle di sfondo nelle fotografie. Anche per questo motivo è stato indispensabile coordinare le osservazioni tra decine di strumenti su orbita, sui veicoli marziani e a Terra.Composizione e anomalie apparentiUna delle domande più interessanti per gli astronomi è cosa ci possa insegnare 3I/ATLAS sulla formazione di altri sistemi stellari. Le misure spettroscopiche hanno evidenziato che il gas rilasciato dalla cometa è ricco di anidride carbonica e contiene acqua, monossido di carbonio e cianuro. La quantità relativa di nichel rispetto al ferro è insolitamente elevata, mentre l’acqua rappresenta solo una piccola frazione del materiale sublimato. Questa composizione suggerisce che la cometa potrebbe essersi formata in una regione molto fredda del suo sistema d’origine, dove la CO₂ poteva congelare in abbondanza.Le cosiddette anomalie citate dai sostenitori dell’ipotesi artificiale trovano spiegazioni naturali. L’allineamento con il piano dell’eclittica rientra nelle possibilità statistiche: molti oggetti provenienti da altre stelle possono incrociare il nostro sistema in angoli variabili, ma le probabilità di un angolo piccolo non sono nulle. Le anticode osservate sono il risultato dell’espulsione di grani di polvere relativamente grandi, che vengono spinti via lentamente dalla pressione della radiazione solare; per un certo periodo questi grani appaiono come un getto rivolto verso il Sole. Le variazioni di luminosità e colore dipendono dall’attività della chioma: quando la cometa si avvicina al Sole, i getti aumentano di intensità e la chioma diventa più brillante e di colore più blu, effetto già osservato in altre comete.Gli astronomi hanno inoltre notato che 3I/ATLAS emette più carbonio che acqua rispetto alle comete del Sistema solare e che produce una quantità relativamente elevata di nichel. Questi dati sono “interessanti” e meritano ulteriori studi, ma non implicano in alcun modo l’esistenza di una tecnologia avanzata; al contrario, rappresentano un’opportunità per comprendere come i materiali nei dischi protoplanetari di altri sistemi si differenzino dal nostro.Un’opportunità scientificaAl di là delle fantasiose supposizioni, 3I/ATLAS offre agli astronomi una finestra unica sulla chimica di altri sistemi stellari. Studiando i gas e le polveri rilasciati dalla cometa, i ricercatori possono confrontare gli elementi e le molecole presenti con quelli delle comete del Sistema solare e testare i modelli di formazione planetaria. L’occasione di osservare un oggetto che nasce sotto un’altra stella e che passa per un breve periodo vicino ai nostri strumenti è estremamente rara; per questo quasi tutti i telescopi – dalle missioni su Marte a quelli in orbita attorno alla Terra – sono stati coinvolti nella campagna di osservazione.Gli scienziati sottolineano che non c’è alcun pericolo: la cometa rimarrà sempre distante e, dopo la metà di dicembre, diventerà nuovamente invisibile anche ai più potenti telescopi. Ciò che resterà sarà un patrimonio di dati che permetterà di comprendere meglio la diversità dei materiali nei sistemi planetari e di affinare le tecniche con cui in futuro si cercheranno tracce di vita altrove. In questo senso, 3I/ATLAS non è una navicella aliena ma un messaggero naturale che porta con sé indizi sull’evoluzione di mondi lontani e sulla nostra stessa curiosità di esplorare l’universo.